Prefazione di Paolo Guzzanti

Paolo GuzzantiAlla fine dell’estate del 2010 mi trovai nell’imprevista necessità di separarmi legalmente. Ero di pessimo umore e non sapevo a quale santo, cioè avvocato, rivolgermi. Certo, avevo parecchi amici separati e divorziati, ma non avevo voglia di socializzare la mia vita privata. Così, feci quel che tutti ormai facciamo per risolvere un problema: interpellai internet ponendo al dio della rete la banale domanda: chi è il miglior avvocato matrimonialista?

Il motore di ricerca mi scaricò un gran numero di pagine e di nomi.

Ad attirare la mia attenzione fu il profilo di Gian Ettore Gassani, dalla foto che evidenziava un’aria combattiva, ma con una decorosa eleganza. Mi aveva colpito in particolare la collezione dei suoi interventi televisivi: quest’uomo, mi dissi, compare in tutti i telegiornali, i talk show, le trasmissioni specialistiche e di intrattenimento. E ci sarà un motivo, pensai, se è l’intervistato prediletto di tutti i canali pubblici e privati.

Cliccai su alcuni video e constatai che l’avvocato è considerato una sorta di autorità quando si devono commentare fatti di cronaca che investono la crisi della famiglia, le cause di separazione e i divorzi.

Me lo immaginai allora come un divo del foro con un grande studio moderno e metallico in un edificio tecnologico. Non era così. Il suo studio è a piazza Risorgimento, là dove il quartiere piemontese dei Prati confina con le alabarde svizzere del Vaticano, in un palazzo della vecchia Roma umbertina costruita dai piemontesi a imitazione di Torino. E in questo ambiente arredato in modo sobrio, persino un po’ retrò, con una confortevole quantità di libri, il nostro fu un approccio fra avvocato e cliente con qualche variante rispetto a quello canonico.

Io raccontavo e Gassani mi lasciava parlare senza pormi limiti, chiedendo semmai ulteriori dettagli, accettando le mie divagazioni e indignazioni. Accadeva qualcosa di simile a quel che succede quando si incontrano uno psicoanalista e il suo paziente: la prima seduta dà l’imprinting al futuro rapporto, e così accadde a me con Gian Ettore Gassani. Io ero felice di raccontare e lui sembrava ancora più felice di ascoltare, sicché molto rapidamente si sviluppò un rapporto umano, oltre che professionale. E capii qual era il suo strumento di lavoro: la curiosità e la capacità di ascoltare, mettendosi sulla lunghezza d’onda di chi gli stava davanti.

La sua curiosità stimolava la mia. Se lui è un avvocato, io sono un giornalista naturalmente attratto da tutto ciò che è originale, nuovo e da cui è possibile espellere l’ovvio. In breve, passammo dal mio caso personale a chiacchierate sul suo lavoro e dunque sulla sua esperienza in fatto di separazioni e divorzi. Ovvero sulla famiglia italiana, usi e costumi, fatti e misfatti, vizi ed evoluzioni. Così le parti cominciarono a invertirsi ed era l’avvocato Gassani a raccontare e io ad ascoltare e porre nuove domande. Descriveva un pianeta a me ignoto, a metà strada fra il giurassico delle creature più feroci e situazioni comiche o grottesche che mi ricordavano i film di Totò. Partiti della mia vicenda personale, ci allargavamo sulle cifre crescenti dei divorzi e degli annullamenti ecclesiastici, delle tragedie dei bambini figli dei separati e crudelmente sottratti ai loro nonni incolpevoli. Gassani parlava, e io pensavo: quest’uomo dovrebbe scrivere un libro: era una miniera di ritratti teatrali e di analisi gelide da cui emergeva la nuova mappatura genetica della società italiana.

L’uomo che avevo davanti dimostrava di essere un eccellente avvocato ma anche un sociologo e un giornalista con una netta inclinazione per il reportage e il paradosso, cui si aggiungeva un certo talento da “comedian”: quel tipo di cabarettista che sa denudare la realtà mostrandone la volgarità. Man mano che i nostri incontri si moltiplicavano e la mia causa andava avanti, Gassani mi offriva continuamente nuove prove e scenari della società.

«Sa qual è il tempo medio che un giudice in tribunale dedica alla separazione di una coppia? Ventisette minuti. In quei ventisette minuti la storia di due vite viene soppesata, gettata nel tritacarne e infine nella spazzatura. Per non parlare dei figli».

Ero sempre molto stupito da quel che mi raccontava, mostrandomi spesso i dati, e un giorno gli chiesi perché non scrivesse un libro. Con un po’ d’imbarazzo aprì un cassetto e tirò fuori un manoscritto rilegato. Me lo offrì in lettura. È il libro che avete in mano e che lui aveva provvisoriamente intitolato 27 minuti. Il titolo poi è diventato I perplessi sposi, un suo calembour molto efficace che permette al lettore di capire meglio di che cosa tratti.

Lo divorai. Era meglio di un rapporto Censis, perché la quantità dei dati era, sì, notevole, ma il modo in cui veniva raccontata l’Italia che va a nozze e poi a divorziare mi sembrava e mi sembra irresistibile. Mi divertii con la descrizione del “turismo divorzile” e poi con la sezione in cui Gassani compone uno straordinario bestiario di clienti, cioè di cittadini italiani che vanno a separarsi e a divorziare (io in fondo ero uno di loro), e che costituiscono una specie di museo delle cere italiano.

Una galleria umana che prosegue attraverso tutte le stazioni della via crucis consumista e ipocrita, con una crescente dose – questa è la mia impressione – di malafede collettiva che dà spazio anche all’invadenza, la mancanza di rispetto per sé e per gli altri, compreso
l’avvocato che viene tallonato giorno e notte da clienti che sembrano non essere in grado di porre limiti alle loro pretese.

Gassani sferza anche i suoi colleghi, e in particolare quel genere di avvocati che lui chiama “parafangari”, alla ricerca di liti effimere e improvvisatori pericolosissimi nel campo del diritto di famiglia. La sua tesi è che gli avvocati che si intendono di diritto di famiglia costituiscono una razza a parte, o almeno coloro che hanno scelto una specializzazione molto circoscritta che richiede particolari qualità umane, oltre che professionali, perché determina conseguenze sulla vita di molte persone e non soltanto sui separandi: bambini, parenti e nonni indifesi. Ma, più che altro, Gassani è convinto che il compito dell’avvocato sia quello di ridurre la proporzione della lite, spegnerla, mentre i “parafangari” gettano benzina sul fuoco, visto che il loro unico miraggio è incassare parcelle da rapina, comportandosi da veri agenti provocatori per rendere il conflitto infinito e costoso.

Irresistibile la galleria dei clienti che fa vibrare tutte le corde della commedia umana: ecco la schiera dei patetici e quella dei nevrotici, la schiera degli ossessivi e dei furiosi, dei lamentosi e di chi telefona senza imbarazzo al proprio avvocato nel pieno della notte soltanto perché non riesce a dormire e gradirebbe fare quattro chiacchiere.

Mi complimentai con l’autore: ero rimasto turbato dalla sua descrizione imprevedibile (documentata al di là di ogni ragionevole dubbio) di un’Italia totalmente reale e cinica, spesso cattiva, spietata, superficiale, indifferente a qualsiasi valore, invariabilmente incline al pessimo gusto. E allora, gli chiesi, che cosa vuol fare del suo lavoro? Gassani era titubante e io mi offrii di farlo leggere al mio editore. Il risultato è il libro che avete in mano.

Una delle cose che più mi hanno colpito di questo testo è l’attenzione che Gassani dedica ad alcuni fenomeni esteri, specialmente americani, che poi trovano fertile sviluppo in Italia. L’America, si sa, è sempre più avanti e spesso basta osservare quel che avviene là oggi, per sapere che cosa accadrà qui domani.

Avendo una certa familiarità con gli Stati Uniti conosco bene la partita doppia dei luoghi comuni fra italiani e americani su culture e comportamenti. Per la maggior parte degli italiani, gli americani sono cafoni volgari e arroganti; per la maggior parte degli americani gli italiani sono mafiosi sentimentali e mammoni. Gli italiani danno tuttavia atto agli americani di produrre buoni film e buona musica, così come gli americani sono sicuri, ancora oggi nel Ventunesimo secolo, che noi italiani manteniamo in vita il più solido modello esistente di famiglia. Ci vedono sempre (e non sono i soli) secondo lo stereotipo dei pranzi domenicali che vedono sedute alla stessa tavola tre generazioni in adorazione di una insalatiera di fettuccine al sugo, mentre i bambini giocano felici, allegre nonne non temono di finire in un ospizio, le coppie reggono, il risparmio lievita sotto il materasso, sicché nel complesso, e nel luogo comune, la bella famiglia italiana, nata dal bel matrimonio italiano, è il vero architrave che sorregge la società.

Lo stereotipo americano (ma anche francese, inglese, australiano…) – lo chiarisce bene anche questo libro – non funziona più. Se mai ci fu, quel tipo di società è in via di estinzione e il lettore troverà le cifre e gli aggiornamenti statistici di una realtà completamente diversa: la famiglia italiana è sempre più fragile, più divisa, più superficiale, e questa fragilità un po’ incosciente e un po’ fatua si vede fin dall’inizio, fin dal matrimonio. E prosegue quando gli stessi genitori che hanno accompagnato i figli all’altare, poi li scortano dall’avvocato per chiudere la partita matrimoniale come si può chiudere la partita Iva.

Anche il divorzio è stato per decenni considerato in Italia una “americanata”: fino agli anni Sessanta era
considerato roba per attrici di Hollywood, miliardari di Manhattan e petrolieri texani: in un’Italia ancora in bianco e nero, familiare e familista e ipocritamente rispettosa di regole antiche e di tabù oppressivi, i divorziati non esistevano, i separati erano pochi e preferivano non fare outing della loro condizione. Si diceva di una donna picchiata o tradita che era una “malmaritata”. Per gli uomini vigeva ancora l’adagio secondo cui “peccato di pantalone, pronta assoluzione”. Poi arrivò l’America, e arrivarono i radicali con la loro strenua battaglia vinta con un referendum popolare, a portare in Italia un divorzio che già esisteva in quasi tutti i Paesi civili. All’inizio i divorzi e le separazioni ebbero un andamento lento e progressivo, poi sempre più tumultuoso, mentre i matrimoni diminuivano e l’uso della convivenza sostituiva in larga parte i fastidi del matrimonio e delle sue burocrazie. Così cominciò quel lento smottamento che poi è diventato la slavina senza forma descritta in queste pagine.

L’America, dicevamo, precede quasi sempre. Quando nella seconda metà degli anni Novanta vivevo a New York e assistevo al miracolo del nuovo mondo on line che in Europa e specialmente in Italia era sconosciuto, avevo facile gioco a stupire i miei connazionali raccontando di internet, dei pagamenti delle bollette on line, le telefonate attraverso il computer: insomma l’accelerazione inarrestabile della possibilità di comunicare e quindi anche di organizzare e, perché no, barare, tradire, imbrogliare. Tutto ciò è poi rapidamente diventato parte della nostra vita on line ed è proprio sulla rete di internet che bisogna leggere il volo degli uccelli che indica che cosa ci riserva il futuro. E il futuro viene anticipato da Gassani quando spiega che cosa sia l’“adulterio tecnologicamente assistito”: un servizio, perché come tale si presenta, che assiste i coniugi fedifraghi nell’organizzazione del tradimento e nella
protezione delle bugie. Ma anche guardando in Europa, in Francia il sito Gleeden fa affari d’oro, seguendo lo stesso principio con grafica diversa.

Se ne desume che il deterioramento della vita di coppia ha preso una china in fondo alla quale c’è la dissoluzione della famiglia quale noi la conosciamo e che ancora pretendiamo, o fingiamo, di difendere mentre tutti i parametri stanno cambiando. Aggiungerei che questo tipo di dissoluzione pressoché totale della famiglia è già oggi visibile in California e costituisce la possibile vetrina di un nuovo genere di società umana, agli antipodi di quella tradizionale. E anche in questo caso gli americani hanno già seguito e accompagnato il fenomeno con una serie di telefilm televisivi famosi in tutto il mondo, che descrivono proprio una società così disarticolata e tuttavia ancora in piedi, come si vede in Six feet under.

Un’altra avvisaglia registrata da Gassani prima in America e poi da noi, è lo “speed marriage” che letteralmente vuol dire il matrimonio alla svelta, usa e getta, o se preferite il “matrimonio sveltina”: dopo un ricevimento di dimensioni mostruose e dal costo proporzionato, dopo aver contratto debiti con un’agenzia di viaggi per una trasferta miliardaria in qualche vacanzificio a sei ore di volo, la coppia torna abbronzata sia dal sole che dal livore e chiede di rivolgersi al presidente del tribunale o anche alla Sacra Rota, se è stato uno dei sempre più rari matrimoni religiosi. Lo speed marriage, parente del fast food, risponde all’esigenza di accorciare tutti i tempi, vivere in modo stupidamente intenso e a costi stellari un evento che non metterà radici, e passare ad altro. In inglese l’espressione speed marriage ha inoltre un senso più compiuto perché allude allo speed date, e cioè all’appuntamento con finalità sentimentali o sessuali semplificate e accelerate. E infatti si nota nei Paesi anglosassoni che la ritualità del date è stata alterata
e questo porta conseguenze che già si avvertono sulla società intera. In Italia questo rito non esiste, ma nei Paesi anglosassoni è uno dei cardini della società perché stabilisce un codice di comportamento nell’incontro fra due persone – etero o gay – che cercano un partner e accettano di conoscersi a cena per annusarsi, prendersi le misure e decidere se andare avanti oppure no.

L’insieme delle regole del date, è stato concepito per rassicurare chi cerca amore e sesso o entrambi. Le regole garantiscono rispetto, gradualità, chiarezza, possibilità di ripensarci e tornare indietro senza (quasi) conseguenze. E infatti la ritualità prevede che al primo incontro ognuno racconti se stesso e faccia domande discrete all’altro. Se al primo date ne segue un secondo, vuol dire che la cosa potrebbe funzionare, tutto diventa più esplicito, e al terzo si dà per scontato che i due passino la notte insieme (il che spiega i numerosi processi per stupro ai giovani maschi che al terzo date hanno preteso come un diritto, e con la forza, di concludere). Ma ecco che la rottura della dimensione “on line” accelera anche il dating, che diventa veloce perché agli appuntamenti tradizionali si sostituiscono le migliaia di siti che offrono in pronta consegna una fidanzata, un fidanzato, una moglie il cui marito è fuori casa, un marito single per il tempo di un viaggio di moglie e figli. Perché seguire la vecchia ricetta della nonna dei tre date tradizionali se si può fare tutto alla svelta saltando i preamboli, precipitandosi alle conclusioni e gettando poi, quasi subito, tutto nei cassonetti della raccolta differenziata: dallo speed date allo speed marriage al super speed divorce? Una catena di montaggio e anche di smontaggio dell’anima umana.

In Italia sono sempre meno coloro che si sposano, e mentre lo fanno stanno già organizzandosi per uscirne fuori alla svelta e raffinano l’arte, anch’essa americana, del “prenup”, che in Italia corrisponde più o meno alla separazione dei beni, ma redatta con mille clausole e
legalizzata come un contratto. Ma il prenup americano – da prenuptial agreement, accordo prematrimoniale – non si ferma alla banale separazione dei beni, ma prevede tutti i casi di contrasto e le prescritte conseguenze, come se fosse già scontato che ogni matrimonio è un contratto a termine: minore sarà la dose di romanticismo e di fresca ingenuità, meno si dovrà poi imprecare fra avvocati e tribunali. La sentenza di morte di un’unione eterna è in questo modo già scritta sul suo certificato di nascita ed è ormai – come documenta Gassani – nel Dna della nuova famiglia, sul cui sfondo si muovono figure effimere e crudeli. I bambini sono sempre quelli che pagano le spese più penose e, commenta Gassani, sono i soggetti eternamente deboli, ancora non adeguatamente

tutelati dall’attuale diritto di famiglia.

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